Quante volte ti capita di leggere annunci di lavoro o ricerche che abbracciano uno spettro piuttosto ampio di competenze?
Avendolo coltivato fin dagli esordi, con oltre 20.000 contatti mi ritengo un utente piuttosto attivo su Linkedin e – anche se faccio l’imprenditore da ancora più tempo – mi è capitato spesso di leggere le job description.
I casi limite, quelli in cui ci si aspetta seniority pluriennale da persone che poi si è disposti ad assumere solo come stagisti, rappresentano un paradosso. Secondo me denotano chiaramente la mancanza di trasparenza sugli obiettivi professionali che il candidato avrà all’interno dell’azienda.
Volendo invece concentrarsi sulle ricerche serie, quelle dove le competenze saranno funzionali ad un progetto definito: meglio un candidato iperspecializzato o uno con competenze trasversali?
Durante la mia carriera manageriale e imprenditoriale mi sono trovato spesso a questo bivio, e ora più che mai, aiutando le persone a creare la propria impresa digitale mi è ancor più evidente quali siano i pro e i contro delle due opzioni.
Il mondo dell’istruzione sembra prediligere l’imprinting specialistico. Nascono così istituti superiori ad indirizzo scientifico – magari per l’approfondimento di materie come informatica o biologia – a cui seguono corsi di laurea coerenti, dove gli argomenti specifici prevalgono sugli insegnamenti di base. Io sono sempre stato una persona pragmatica, quindi voto a favore dei laboratori e contro le interminabili dimostrazioni di equazioni teoriche.
Ma questo è sufficiente a garantire la valorizzazione delle proprie competenze sul mercato?
Anche le aziende premiano i percorsi che sembrano coerenti e lineari. Spesso prediligono candidati che per percorso formativo o di carriera hanno già approfondito temi di settore. Ancora c’è chi guarda se il percorso universitario si è chiuso nei tempi, senza interruzioni, ripensamenti e cambi di direzione. Per chi non ha una laurea, probabilmente la strada è ancora più in salita.
Ma questo approccio non è forse rischioso? Quando si ragionava per catene di montaggio e produzione forse era l’approccio giusto. Sicuramente anche per le attività di ricerca e sviluppo, o per attività tecniche di produzione è fondamentale disporre di professionisti specializzati, ma poi? Queste sono anche persone adatte a portare all’azienda quella capacità di visione e innovazione che serve ogni giorno per rispondere alle sfide dei mercati?
E poi, quanto un iperspecializzato si sente a proprio agio nell’approcciare nuovi problemi da diversi punti di vista? Quando è in grado di uscire dalla propria comfort zone?
I limiti di questo approccio si notano soprattutto nelle aziende di grandi dimensioni. All’aumentare dei dipendenti, aumentano le procedure, le complessità, i controlli, si defocalizza l’attenzione dalla collaborazione, il mantra diventa “non è di mia competenza” e i progetti si arenano, i budget si spendono senza aver definito chiari obiettivi di risultato, e tutto avanza lentamente, in un sottobosco di lamentele e compartimenti stagni.
Quando in Neomobile abbiamo introdotto le procedure lean e compreso come le organizzazioni piramidali creavano colli di bottiglia all’innovazione e alla capacità di risposta alle esigenze di mercato, abbiamo avuto quasi uno shock.
Ci siamo accorti delle cattive abitudini che si erano consolidate con la crescita, delle differenze tra quando eravamo una startup e, pochi anni dopo, una multinazionale con sedi in Europa e Sud America.
All’inizio l’entusiasmo per ciò che stavamo creando, spingeva tutti a sperimentare e cimentarsi in attività trasversali, magari anche compilative o noiose, ma era chiaro come tutto contribuisse all’evoluzione. Chi si trovava a gestire tecnologie che fino ad allora non erano mai esistite, non si lamentava di non aver ricevuto una formazione, ma chiedeva un budget per testare – e faceva attenzione ad investirlo in modo oculato perché aveva chiare responsabilità e deleghe.
Col tempo questo atteggiamento apparteneva solo ad alcune delle persone in azienda: quelle che avevano passioni esterne al mondo del lavoro, o quelli che erano talmente dediti a ciò che facevano da approfondirlo in modo quasi ossessivo. Gli indistraibili erano sempre aggiornati su cosa stava succedendo sui mercati esteri o come si stavano muovendo i competitor, con cui avevano creato buone relazioni e contatti.
Queste persone di solito erano approdate in Neomobile dopo aver affrontato percorsi non convenzionali, avevano esperienze creative, qualcuno svolgeva anche delle attività in parallelo: aveva la propria startup o era attivo in associazioni alternative. Dal nostro parterre sono usciti diversi imprenditori digitali: molti hanno lanciato aziende proprie, alcuni sono diventati influencer, altri militano sul web come digital marketer o come agile coach nelle aziende.
I casi di successo mi hanno fatto capire una regola di fondo: la vera soddisfazione arriva dall’avere un’inequivocabile passione per qualcosa – tale da potersi definire un esperto di quell’argomento – ma senza che ciò rappresenti un limite invalicabile verso la sperimentazione e l’apprendimento di materie parallele e apparentemente incoerenti.
Il potere delle competenze T-shaped, ossia di un insieme di conoscenze trasversali che permettono di parlare linguaggi diversi con persone diverse, abbinate ad una competenza specialistica prevalente, dimostrata dall’eccellenza dei risultati e del proprio lavoro.
È per questo che amo stimolare le persone a diventare dei solopreneur, per distinguersi da chi ritiene che le proprie competenze vadano valorizzate di diritto.
Chi ha un mindset imprenditoriale e decide di lanciare una propria impresa digitale per valorizzarsi, investe sulla propria felicità e soddisfazione. Sa che non potrà semplicemente millantare capacità, ma dovrà cimentarsi in un percorso più ampio e articolato, studia e si espone ad esperienze nuove e appassionanti.
Il risultato non è misurabile con la sola soddisfazione economica, bensì con il sentirsi una persona completa e in grado di districarsi in una gamma di situazioni ampia e sfidante a piacere.
Per mettere in luce la propria specializzazione, il solopreneur acquisisce competenze trasversali nel digital marketing, nella tecnologia, nel copywriting (cioè nella scrittura di testi) e nelle tecniche di vendita. Fa di sé stesso un’impresa.
Interessato? Ecco allora qualche dritta su come sviluppare competenze trasversali utili a valorizzarti:
- Cerca di fare esperienze al di fuori della tua area di specializzazione.
- Investi quotidianamente una parte del tuo tempo in formazione – meglio se in attività diverse da quelle di cui ti occupi. Impara una lingua che non ti serve per lavoro, segui webinar online e cerca ispirazione sui social, digitando gli argomenti di tuo interesse come chiavi di ricerca.
- Trova dei modelli cui ispirarti e cerca di capire che valori hanno coltivato nella loro vita per raggiungere il successo. E se non sai da dove partire, puoi seguire il mio webinar “imprenditore digitale”, in cui ogni due settimane intervisto persone che sono passati dalla loro attività di lavoro dipendente alla creazione di un’impresa digitale.
- Ogni volta che hai un’idea cerca di darle forma concreta e di sperimentarla o validarla, mal che vada nel farlo avrai sviluppato un set di competenze aggiuntive, di pianificazione, organizzazione, implementazione e analisi, che il solo parlarne o leggere libri non sarà mai in grado di sostituire.
- Individua la tua area di specializzazione e impegnati per diventarne un massimo esperto, avendo chiaro in mente che tutte le altre competenze che avrai o svilupperai saranno al servizio di questo.
Se vuoi qualche spunto ulteriore seguimi sui social e raccontami qualcosa di te, ti aspetto!
Claudio Rossi – Imprenditore e Business Coach